Chiesa di San Francesco

Voluto da Carlo II nel 1294, così come attesta l’unico documento di cui si è in possesso, l’edificio rientra nella grande campagna costruttiva propria del sovrano napoletano. Nonostante questa affermazione, un’analisi della chiesa, la cronologia relativa proposta per le varie parti definenti l’intero edificio e i confronti operati con molte strutture ecclesiastiche nel Regno proprie dell’azione di Carlo e di Roberto, portano a riconoscere, anche a Gerace, un evento architettonico posto a cavallo tra i due diversi sovrani, di cui uno è riconosciuto come fondatore e un altro come esecutore. Pensare, infatti, a due fasi costruttive decisamente circoscrivibili, una delle quali riguarderebbe la concezione e la realizzazione della chiesa sotto Carlo II e un’altra ove sia riconoscibile il linguaggio di Roberto, è assolutamente impossibile; per contro, nonostante il documento del 1294 attesti la committenza del primo sovrano, non si riscontrano, in realtà, modi compositivi e concezioni spaziali tipici dell’architettura carolina.
A causa di ciò, quindi, si preferirà parlare di una sola fase angioina dove, sull’organismo fondato da Carlo II si inseriscono, concorrendo a raggiungere una compiutezza formale, quelle definizioni architettoniche e spaziali nuove, figlie della congiunta azione pauperistica francescana e di Roberto e Sancia d’Angiò, con tutte le componenti legate a sperimentazioni spaziali e richiami ad apparati teorici e teologici presenti in Santa Chiara a Napoli.
La trecentesca chiesa di San Francesco di Gerace appare, quindi, come un edificio “in divenire”; in tal senso, l’ipotesi ricostruttiva della struttura angioina parte da una sorta di “traccia di progetto” legata a Carlo II e ai minori e si completa attraverso l’evidenziazione dei mutamenti di essa, dovuti sia ad eventuali elargizioni di committenze nobiliari sia ad interventi significanti, in senso minoritico o comunque religioso, legati alle figure di Roberto il Saggio e della moglie.
La ricostruzione della chiesa angioina dimostra che essa si presentava come frutto di una composizione estremamente semplice, con più volumi di altezza e dimensioni differenti, assemblati secondo direttrici geometriche e teologiche precise, dichiaranti apertamente l’appartenenza ad un ambiente certamente meridionale (locale e napoletano). La chiesa si trova presso il limite nord-occidentale della città fortificata, seguendo un orientamento ovest-est, sfruttando una preesistenza appartenente all’epoca sveva che, mutata rispetto alla sua ragion d’essere primitiva, viene trasformata in una sostruzione volta solo ad ovviare all’eccessiva pendenza del terreno.
Essendo legata, sul lato settentrionale e orientale, ad un orto la cui recinzione a Nord coincide con parte delle mura urbiche, la chiesa impone come facciata principale non tanto il lato occidentale, che guarda verso la periferia settentrionale della città, quanto quello meridionale, rivolto verso il centro politico e spirituale, verso la cattedrale normanna e il tessuto urbano omogeneo. Proprio su tale fianco si apre, difatti, il monumentale ingresso, sottolineato da un portale databile agli anni ’30 del XIV secolo, presumibilmente di spoglio, a triplice archivolto con decorazioni geometriche e fitomorfe di chiara provenienza arabo-sicula. Il portale é a ghiera multipla archiacuta su due piedritti polistili con colonnine addossate di cui quelle esterne reggono capitelli a crochets, quelle interne invece si legano direttamente alla cornice intermedia di imposta dell’arco, decorata a palmette in successione paratattica disposte su due registri. La decorazione propone motivi geometrici astratti, la cui matrice culturale è certamente indipendente da quella naturalistica che si riscontra nei capitelli all’interno della chiesa. Il posizionamento dell’ingresso lungo il lato meridionale della chiesa, assolutamente scevro da qualsiasi intento decorativo o monumentale, in realtà è certamente classificabile come un voluto e programmatico “errore” compositivo, tipicamente francescano, volto a mettere in primo piano le necessità segniche e funzionali, rispetto alla correttezza della realizzazione architettonica.
Ancora sul fianco meridionale della chiesa, unica parte della struttura in cui è possibile leggere in modo più chiaro le tracce di interventi sul monumento, è possibile notare un nuovo elemento emergente, assimilabile ad una cultura figurativa meridionale e, nella fattispecie, angioina: la lunga e accidentata cornice a spiovente che divide, in senso orizzontale, l’intera superficie muraria.
L’angolo sud-orientale dell’aula è segnato all’esterno da un cantonale sporgente con gli spigoli smussati che si raccordano alla cornice anzidetta che qui si impenna, generando un gradino che raggiunge, superata l’area del cantonale, il complesso corpo presbiteriale. Esso, sembrerebbe configurarsi all’esterno originariamente come un attento assemblarsi di volumi cubiformi, presumibilmente coperti da un tetto piano, i cui spigoli verrebbero sottolineati da cantonali in pietre squadrate, come quelli dell’aula, e il cui profilo superiore, oltre ad essere segnato dalla presenza della cornice orizzontale, potrebbe suggerire un andamento merlato, utilizzando un linguaggio proprio degli ambienti laici e cavallereschi. La particolare conformazione presbiteriale avrebbe mostrato, in definitiva, una composizione articolata, composta dall’emergenza di due volumi squadrati, corrispondenti al presbiterio e alla tribuna, affiancati, a Sud da una cappella, la cui altezza sarebbe indicata dal dente di risalita della cornice, e a Nord da una torre e da una cappella di dimensioni ridotte rispetto a quella meridionale, ad essa simmetrica.
Ciò che risultava dall’unione di tali semplici volumi parallepipedi era un edificio estremamente complesso ove, accanto alla denuncia del carattere pauperistico, si notava la gran quantità di suggestioni teologiche e culturali. Queste, apparentemente estranee al movimento minoritico in un ambiente centritaliano, intervengono a definire i caratteri fondamentali del medesimo movimento in ambiente meridionale e in epoca angioina.L’interno dell’edificio si presenta ancora oggi, in definitiva, composto da almeno due parti, assolutamente indipendenti tra loro, sia dal punto di vista strutturale che linguistico e volumetrico, corrispondenti ad altrettanti luoghi differentemente fruiti e di diverso significato, che dimostrano la volontà di aderire ai dettami francescani, frutto di una corretta interpretazione delle norme di San Bonaventura del 1260. Corrispondente al primo volume allungato posto ad occidente è l’aula, lunga circa 27 metri, coperta da un tetto a capriate a vista, mentre relativi ai due corpi più bassi posti ad oriente sono il presbiterio e la tribuna.
Rientrando in tal modo nelle “regole” francescane narbonnesi, l’originale configurazione dell’aula geracese, coperta da un tetto capriate a vista, riproporrebbe la semplicissima tipologia architettonica minoritica detta “ad aula” realizzando, senza alcuna decorazione parietale plastica o alcun elemento di definizione spaziale, uno spazio anche luministicamente indipendente. Che tale ambiente fosse totalmente diverso dal presbiterio, sia dal punto di vista architettonico sia da quello fruitivo, è denunciato proprio dalla particolare configurazione architettonica e luministica; esso, infatti, si presenta come un luogo dall’atmosfera rarefatta, dove la luce penetra in modo pressoché uniforme dalle sei lancette, poste lungo le pareti nord e sud, e che non trova soluzione di continuità nella cesura imposta dalle due pareti corte ad Est e a Ovest. A sottolineare ancora di più tale dualismo architettonico e spaziale tra l’aula e il corpo presbiteriale interveniva, in origine, anche la particolare situazione che caratterizzava sia la parete orientale sia quella occidentale dell’aula; ad oriente, infatti, la luce penetrava nell’invaso spaziale attraverso una piccola finestra lucifera posta in asse con l’arco trionfale, che mette in comunicazione l’aula con il presbiterio, ad occidente, invece, interviene ad illuminare il vano un complesso sistema luminisitico di monofore, composto dall’altissima lancetta centrale e da due oculi che la affiancavano.
L’arco trionfale, posto al centro della parete est dell’aula, che si collega ai muri d’ambito attraverso due cornici-imposta a gola diritta, è retto da piedritti con gli angoli decorati da colonnine lunghissime reggenti capitellini con foglie di quercia. Al di là di esso si apre la cappella presbiteriale, originariamente senza finestre e quindi, oltre un secondo arco trionfale, la tribuna quadrangolare pervasa di luce. Il presbiterio, coperto da una volta a crociera costolonata ottopartita, e la tribuna (originariamente anch’essa voltata), sottolineano, proprio attraverso questo modo affatto diverso di trattare le coperture e, quindi, la spazialità e le superfici murarie, lo scarto qualitativo operato tra il luogo deputato all’accoglienza dei fedeli - l’aula semplicissima e coperta da un tetto - e quello volto alla conservazione dell’Eucarestia. Il presbiterio, però, non evidenzia solo la presenza eucaristica all’interno della chiesa francescana geracese ma si configura, piuttosto, come una sorta di perno, elemento attorno al quale ruota l’intera struttura e quasi luogo di attesa prima della conclusione di un eventuale percorso di purificazione, verso la luce che invade tutta la tribuna. Se, infatti, immediatamente dopo l’arco trionfale si avverte la necessità di sottolineare l’azione liturgica, volta alla consacrazione, accanto ad essa risulta evidente il valore dato all’elemento luminoso che, solo attraverso la grandissima finestra, penetrante la tribuna sul lato orientale e tramite l’arco di comunicazione tra essa e il presbiterio, si riversa anche in quest’ultimo.
Accanto a queste suggestioni luministiche però, altri elementi tendono a rivestire di significati teologici la chiesa di Gerace. Tornando, infatti, al ruolo di perno che il presbiterio riveste nel rapporto tra le parti dell’edificio, si afferma qui l’esistenza di due piccole porte che permettevano la comunicazione di tale grande vano centrale con due ambienti laterali, ad esso addossati, coperti anch’essi a crociera, quindi identificabili come “cappelle”, e assieme al quale venivano a creare una sorta di pseudo transetto.
Il Convento dal 1806 fino alla fine dell’Ottocento è stato adibito a carcere giudiziario.

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